Passaggio da staminali a neuroni realmente funzionanti

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La stessa tecnica riprodotta nel modello animale ha dimostrato di consentire la produzione di neuroni realmente funzionanti, come dimostrato in alcuni trapianti nell’ippocampo di topi

La trasformazione di cellule staminali embrionali in un particolare tipo di neuroni, che in soggetti colpiti dalla malattia di Alzheimer muoiono, è riuscita per la prima volta ai ricercatori della Northwestern University Feinberg School of Medicine, che firmano in proposito un articolo sulla rivista Stem Cells.

Le cellule in questione sono i neuroni colinergici del proencefalo basale e consentono all’ippocampo di recuperare i ricordi nel cervello, una capacità che è fortemente compromessa già nelle prime fasi dell’Alzheimer. Poiché di tratta una popolazione di cellule relativamente piccola, la loro perdita ha un effetto devastante per le capacità mnemoniche.


“Questa tecnica per produrre neuroni permette di ottenere un numero pressoché infinito di queste cellule in laboratorio permettendo in primo luogo di studiare perché proprio questa popolazione di cellule muoia con la patologia di Alzheimer”, ha spiegato Christopher Bissonnette. “In secondo luogo, permette in linea di principio di testare migliaia di differenti farmaci per cercare quelli in grado di mantenere in vita le cellule in un ambiente ostile”.

In questo studio Bissonnette e colleghi sono riusciti a produrre i neuroni colinergici a partire da cellule staminali embrionali. La stessa tecnica riprodotta nel modello animale ha dimostrato di consentire la produzione di neuroni realmente funzionanti, come dimostrato in alcuni trapianti nell’ippocampo di topi, in cui si è osservata anche la formazione di nuovi assoni e la produzione del neurotrasmettitore acetilcolina.

In un secondo studio non ancora pubblicato, lo stesso gruppo di ricerca ha ottenuto gli stessi neuroni a partire da cellule staminali pluripotenti prelevate dalla cute di tre gruppi di soggetti: pazienti affetti da Alzheimer, pazienti sani senza storia familiare di Alzheimer e infine pazienti sani con familiarità per la malattia.

Per arrivare alle prime applicazioni cliniche, avvertono gli autori, occorrerà in ogni caso aspettare ancora molti anni, non prima cioè che la nuova metodica venga validata in ulteriori studi.

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