La teoria dell’elettrone di Lorentz, formulata nel 1892, celebra questo mese il suo centoventesimo compleanno. Un premio Nobel per la fisica ne ricorda il ruolo fondamentale nel progresso delle conoscenze, ricordando che ha rappresentato un ponte tra la fisica classica e quella moderna di Frank Wilczek

Gli elettroni dominano il mondo, ma non molto tempo fa erano solo un’idea. Questo mese si celebra infatti il 120° anniversario di un’opera dell’ingegno che ha avuto una profonda influenza, la teoria dell’elettrone del fisico olandese Hendrik Antoon Lorentz. Il suo elettrone non era semplicemente una particella elementare ipotizzata ma il fulcro di un’ambiziosa teoria della natura. Oggi i fisici sono abituati alla nozione che una completa descrizione della natura possa derivare da un semplice ed elegante insieme di equazioni, ma prima di Lorentz questo era solo un’utopia.

Per la maggior parte dei fisici, la vetta memorabile della fisica del XIX secolo è la teoria del campo elettromagnetico coronata dalla sintesi matematica di James Clerk Maxwell del 1864, dopo la quale è calata la nebbia fino all’emergere della relatività e della teoria quantistica. Ma questa vulgata lascia nell’ombra lo sforzo eroico, e brillante di per sé, che ha fatto da ponte tra queste due teorie.

Per fornire un quadro preciso del contesto, è importante ammettere anzitutto che l’esposizione di Maxwell delle sue equazioni è un pasticcio. Nei suoi scritti non c’è la struttura compatta e pulita che gli studenti imparano come “equazioni di Maxwell”: è un torrente di simboli e un profluvio di parole ed equazioni. Maxwell era un uomo profondamente umile, che non pensava di star producendo un’opera fondamentale, degna di essere scolpita nel marmo. Si era messo al lavoro per sintetizzare in forma matematica tutto ciò che  si sapeva al suo tempo dei fenomeni elettrici e magnetici. Nella sua presentazione, le equazioni fondamentali sono mescolate a una fenomenologia improvvisata.

Il successo di Lorentz è stato quello di purificare il messaggio delle equazioni di Maxwell, separando il segnale dal rumore. Il segnale: quattro equazioni che goverano il modo in cui i campi elettrici e magnetici rispondono alla carica elettrica e al suo moto, più un’equazione che specifica la forza che questi campi esercitano sulla carica. Tutto il resto è rumore!

A questo punto, c’erano equazioni definite per il comportamento dei corpi microscopici dotati di una certa massa e di una certa carica. Era possibile usarle ricostruire su nuove fondamenta una descrizione della materia, partendo da “atomi” di carica idealizzati? Questa era la sfida della teoria dell’elettrone di Lorentz. A partire dal suo articolo del 1892, Lorentz e coloro che lo seguirono usarono la teoria dell’elettrone per spiegare una proprietà della materia dopo l’altra: la conduzione dell’elettricità e del calore, il comportamento dei dielettrici, la riflessione e la rifrazione della luce e altro ancora. In questo modo posero le baso per quei campi della ricerca che oggi chiamiamo elettronica e scienza dei materiali. E nel 1897, Joseph John Thomson dimostrò sperimentalmente l’esistenza degli elettroni. (Si potrebbe dire che l’elettrone sia stato concepito nel 1892 e partorito nel 1897).

La maggior parte del lavoro di Lorentz del 1892 riguarda l’idea, seducente quanto problematica, che la massa degli elettroni possa essere una conseguenza della loro carica elettrica. La carica elettrica in movimento genera sia un campo elettrico sia un campo magnetico che si oppongono alle variazioni del moto. Questa reazione rende conto dell’inerzia dell’elettrone, e quindi della sua massa? Queste idee hanno una storia antica: Aristotele riconduceva l’inerzia della materia alla reazione dell’aria al moto. La visione di Lorentz della massa elettromagnetica ebbe un’influenza enorme. Ispirò un importante lavoro tecnico, in particolare dello stesso Lorentz e di Henri Poincaré, che anticipò molte parti della teoria della relatività speciale di Albert Einstein.

 

La meccanica quantistica ha poi cambiato le regole del gioco, e l’idea che la reazione elettromagnetica da sola sia responsabile della massa dell’elettrone non è apparsa più plausibile. E’ da sottolineare, però, che i miei colleghi e io siamo riusciti a spiegare la massa dei protoni, dei neutroni e di altre particelle fortemente interagenti utilizzando un’idea fortemente collegata a essa. L’inerzia di quelle particelle deriva dalla reazione dei campi di gluoni della sorella maggiore dell’elettromagnetismo, la cromodinamica quantistica. Benché la particella di Higgs venga talvolta indicata come quella che conferisce alle particelle la loro massa, in realtà il suo contributo alla massa della materia ordinaria è assai limitato. E’ la splendida idea di Lorentz, nella sua forma moderna, che rende conto della maggior parte di essa.

 

La teoria dell’elettrone di Lorentz, benché poi superata in molti suoi dettagli, è stata una pietra miliare. Riconoscendo le risposte corrette e ponendo le domande giuste, preparò la strada alla relatività alla teoria quantistica e alla fisica moderna. Negli ultimi anni della sua vita, Einstein riconobbe a Lorentz un memorabile tributo: “Per me personalmente, ha significato più di chiunque altro abbia incontrato nel corso della mia vita”.

L’AUTORE: Frank Wilczek, del Massachusetts Institute of Technology, nel 2004 ha condiviso il Premio Nobel per la fisica per il suo contributo allo sviluppo della cromodinamica quantistica, la teoria dell’interazione nucleare forte. Il suo libro del 2008, The Lightness of Being (La leggerezza dell’essere, Einaudi 2009), espone la ricerca di una teoria unificata di tutte le forze fondamentali.

(La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Scientific American, giugno 2012)

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