Dallo studio delle malattie neurodegenerative ad una scoperta rivoluzionaria: la pedofilia ha una base genetica

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Dal 42°Congresso Nazionale della Società Italiana di Neurologia – SIN – Torino Lingotto, 22/25 ottobre 2011 l’Italia in prima linea contro le malattie neurodegenerative con nuove scoperte e studi del gruppo di ricerca del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino (ospedale Molinette) coordinato dal professor Lorenzo Pinessi, Presidente del 42°Congresso SIN ,Ordinario di Neurologia, Direttore Clinica Neurologica II ,Università di Torino – Ospedale Le Molinette che aprono importanti prospettive di ricerca, di terapia e di prevenzione . Le nuove scoperte e gli ultimi studi: la pedofilia ha una base genetica – valutata per la prima volta l’associazione tra l’insulino-resistenza (l’anticamera del diabete mellito) e la demenza frontotemporale – Nell’ emicrania l’effetto placebo non è autosuggestione ma è determinato da specifici circuiti nervosi.

La scoperta, ad opera del gruppo di ricerca del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino coordinato dal professor Lorenzo Pinessi, Presidente del 42°Congresso Nazionale della Società Italiana di Neurologia,Ordinario di Neurologia, Direttore Clinica Neurologica II Università di Torino – Ospedale Le Molinette è frutto dello studio di un individuo che, prima di andare incontro a demenza, ha manifestato pedofilia eterosessuale verso la propria figlia di nove anni. Lo studio ha identificato una mutazione del gene della progranulina (PGRN). La predisposizione genetica potrebbe quindi condizionare in maniera rilevante l’orientamento sessuale e più in generale il comportamento di un individuo.

 

La pedofilia – e probabilmente molti altri disturbi del comportamento e dell’orientamento sessuale – ha una base genetica. La scoperta pubblicata su una prestigiosa rivista internazionale (Biological Psychiatry, 2011; 70:e43-4) legata ad una ricerca coordinata dal professor Lorenzo Pinessi, Presidente del 42°Congresso Nazionale della Società Italiana di Neurologia ,Ordinario di Neurologia, Direttore Clinica Neurologica II, Università di Torino – Dipartimento di Neuroscienze – Ospedale Le Molinette di Torino, è una delle più importanti novità che verranno presentate al Congresso Nazionale della SIN al via domani a Torino . “Lo studio di un nostro paziente” spiega il professor Pinessi, “che ha incominciato a manifestare pedofilia eterosessuale all’età di 50 anni verso la propria figlia di nove anni ed è poi andato incontro a demenza fronto-temporale, ci ha infatti consentito di identificare una mutazione del gene della progranulina, localizzato sul cromosoma 17.La progranulina è un fattore di crescita che regola numerose funzioni, tra cui lo sviluppo della differenziazione sessuale del cervello dalla vita intrauterina fino all’età adulta e la sua associazione a una devianza apre nuovi orizzonti: per la prima volta, infatti, l’anomalia di un gene è stata posta in correlazione con una disfunzione della condotta, che rimane tuttora di drammatica attualità. La pedofilia è un disturbo dell’eccitazione sessuale in cui si manifesta un interesse erotico per bambini in età prepuberale, talora limitato al desiderio o al tentativo di seduzione, oppure unito a esibizionismo, a sadismo o feticismo. Il DSM IV, il sistema di classificazione più usato in psichiatria, la include tra le parafilie, quelle forme di eccitazione sessuale legate a stimoli particolari considerati anomali dalla società. La pedofilia è considerata un tratto multifattoriale in cui entrano in gioco aspetti mentali, istituzionali, di educazione sessuale, di violenza e di controllo delle pulsioni. Le sue basi neurobiologiche sono, a tutt’oggi, scarsamente conosciute. Questo caso clinico, acquista una rilevanza inimmaginabile non soltanto sul versante clinico ma anche sotto il profilo sociale e psico-comportamentale e invita a promuovere ulteriori studi in questa direzione. Non si può infatti escludere che, oltre alle influenze ambientali, la predisposizione genetica possa condizionare in maniera rilevante l’orientamento sessuale e più in generale il comportamento di un individuo. Non è poi casuale che la progranulina sia coinvolta anche nella demenza fronto-temporale. Questa nostra scoperta solleverà importanti questioni anche in ambito bioetico, terapeutico e preventivo. La ricerca torinese è il punto di partenza e richiederà nuovi studi per estendere i risultati”.

 

La Demenza Frontotemporale (FTD) “Si tratta”, spiega il professor Pinessi, “di un gruppo di demenze degenerative non-Alzheimer, eterogenee sul piano clinico e neuropatologico, prevalentemente associate ad atrofia dei lobi frontali e della parte anteriore dei lobi temporali, che si manifestano con preminenti turbe del comportamento, della personalità, della condotta sociale e dell’espressione verbale e con relativa conservazione della memoria e dell’orientamento topografico. La demenza frontotemporale costituisce la terza causa di demenza e, nell’età presenile, presenta una prevalenza sovrapponibile a quella della malattia di Alzheimer. La FTD è familiare nel 40% dei casi. Sono caratterizzate da un esordio molto precoce, con gravi alterazioni comportamentali che possono precedere di molti anni la comparsa di chiare turbe cognitive.

 

LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE: UNO SCENARIO ALLARMANTE

“Il coinvolgimento della progranulina”, dice il professor Pinessi, “oltre che nella pedofilia, nella demenza, richiama l’attenzione alle malattie neurodegenerative, che sono un altro argomento forte che verrà approfondito nel corso del 42°Congresso Nazionale della SIN .Quando di parla di malattie neurodegenerative si fa riferimento a condizioni particolarmente gravose sia per chi ne è affetto sia per la società, quali malattia di Parkinson, sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e demenze. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, per esempio, esprime preoccupazione per le implicazioni economiche legate allo scenario che si prospetta per il futuro, collocando la demenza di Alzheimer tra le prime 15 patologie a più elevato impatto socio-sanitario, tra le quali, tra l’altro, rientra anche l’emicrania. Negli Stati Uniti il Presidente Obama ha intrapreso un progetto, National Alzheimer Project Act (NAPA) proprio per dare impulso alla ricerca nel tentativo di arrestare la crescita esponenziale dei casi negli individui anziani. Va poi ricordato che a livello mondiale il 50% delle disabilità deriva da malattie del sistema nervoso. Solo l’ Alzheimer affligge 29 milioni di persone nel mondo di cui circa 600 mila italiani – il 5 per cento degli over sessanta e quasi il 50 per cento degli ultra 85enni . L’incidenza è maggiore nelle donne, aumenta con il progredire dell’età e in Italia si prevede un raddoppio dei casi nel 2020. Altrettanto gravoso è l’impatto sociale ed economico della patologia. E’ stato infatti calcolato che ogni paziente costa alla società, sia per spese mediche che assistenziali, circa 20.000 euro all’anno all’inizio della malattia per arrivare a 45.000 nelle fasi più avanzate.”

 

L’ASSOCIAZIONE TRA L’INSULINO-RESISTENZA E LA DEMENZA FRONTOTEMPORALE

Una scoperta recente dello stesso gruppo di ricerca dell’Università di Torino coordinato dai Professori Lorenzo Pinessi e Innocenzo Rainero, ha evidenziato un’associazione tra l’insulino-resistenza e la demenza frontotemporale. “L’insulino-resistenza”, spiega Pinessi “è una condizione in cui, come suggerisce il termine stesso, i tessuti dell’organismo normalmente responsivi (muscolo e tessuto adiposo), diventano meno sensibili all’insulina, il principale ormone che promuove l’abbassamento del glucosio nel sangue (glicemia) dopo un pasto e l’utilizzo di questo zucchero Questo si traduce in uno stress per il pancreas, costretto a produrre maggiori quantità di insulina per compensare la resistenza ad essa, e in un aumento anomalo della glicemia stessa, elemento caratterizzante il diabete. L’insulino-resistenza comporta una difficoltà di utilizzo del glucosio a livello cellulare. Nella fattispecie tale disregolazione non risparmia i neuroni, che vanno incontro a un deficit metabolico e quindi a uno stato di sofferenza. In precedenza era già stata dimostrata una relazione tra insulino-resistenza ed emicrania, e si ritiene che tale condizione possa essere una concausa nella comparsa di declino cognitivo, demenza di Alzheimer e, come recentemente dimostrato, un’altra tipologia di demenza, quella cosiddetta fronto-temporale in relazione a tale localizzazione dei processi neurodegenerativi probabilmente legata a una maggiore vulnerabilità dei neuroni in quella regione cerebrale. Un terzo degli individui diabetici non sanno di esserlo, e l’associazione individuata potrà avere ripercussioni future in termini di aumento di incidenza di demenza. L’aumento dell’aspettativa di vita è poi un altro elemento di cui tenere conto nella prospettiva di un futuro incremento dei casi di demenza. Il declino cognitivo deve essere pertanto considerato una spia importante: può giustificare l’eventuale sospetto di un diabete non ancora riconosciuto, come pure deve essere monitorato costantemente nell’individuo a cui questa patologia è stata già diagnosticata. Un ulteriore aspetto riguarda l’età pediatrica, in cui la condizione di insulino-resistenza è purtroppo in aumento anche se non siamo ancora in grado di poter affermare se questa realtà potrà determinare un futuro aumento dei casi di demenza e perfino la possibile anticipazione della sua età di comparsa ma il timore c’è ed è più che giustificato. L’aumento dei casi pediatrici desta in effetti notevoli preoccupazioni a fronte delle implicazioni del diabete e dell’insulino-resistenza in età adulta, in termini non soltanto di riduzione dell’aspettativa di vita ma anche di complicanze cardiovascolari e, come possiamo ora affermare, neurodenegerative”.

 

NELL’EMICRANIA L’EFFETTO PLACEBO NON È AUTOSUGGESTIONE MA È DETERMINATO DA SPECIFICI CIRCUITI NERVOSI

Il 15% dei pazienti con emicrania senza aura risponde positivamente al placebo. Il dato, frutto di un’indagine su oltre 1500 individui svolta dallo stesso gruppo di ricercatori torinesi potrebbe sembrare scontato o privo di rilevanza. C’è però una novità: nelle ricerche farmacologiche e cliniche il placebo, inteso come sostanza innocua somministrata allo stesso modo dei farmaci “veri”, viene impiegato quale termine di confronto per dimostrare l’efficacia di una terapia. In questo caso, invece, è stato seguito semplicemente il decorso naturale della malattia: “l’effetto placebo che abbiamo osservato non è stato correlato né alla patologia emicranica né a comorbilità psichiatriche, cioè ad alterazioni dell’umore, quali per esempio ansia e depressione, spesso associate ad essa” afferma Pinessi. “Questo dimostra che l’effetto placebo ha una base neurobiologica. Non si conoscono ancora i sistemi di neurotrasmettitori coinvolti, ma probabilmente sono in gioco amine biogene e i circuiti della serotonina, che mediano normalmente la sensazione di piacere e benessere. Nella nostra indagine abbiamo rilevato anche un effetto nocebo – che in pratica esprime il timore di effetti dannosi di una terapia, riducendone così l’efficacia –, ma i dati non hanno evidenziato una significatività rispetto agli individui di controllo”. L’effetto placebo, dunque, nel soggetto emicranico non sarebbe soltanto frutto di autocondizionamento o di autosuggestione – la stessa che spinge alcune persone a rivolgersi a maghi e altri falsi terapeuti – ma sarebbe sostenuto da meccanismi neurochimici. “Sarà interessante verificare se questa osservazione si possa estendere ad altri ambiti di malattie, neurologiche e non, e se l’effetto placebo riconosca un’ereditarietà, proprio come è stato dimostrato per l’emicrania” conclude Pinessi.

 

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