I cambiamenti del nostro cervello nel corso dell’apprendimento

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Una recente ricerca getta nuova luce sui cambiamenti che avvengono nel nostro cervello nel corso dell’apprendimento e mette in dubbio la relazione tra il miglioramento di un’abilità e l’aumento delle dimensioni delle aree cerebrali legate a quella abilità.

Con l’età e l’esperienza, ognuno di noi diventa un conoscitore esperto di qualcosa. E quale che sia la capacità di sentire, vedere o gustare in modo più sottile dei meno esperti è scritta nel nostro cervello. Ma dove, e come? 

Una linea di ricerca ormai classica ha affrontato questa domanda mappando i cambiamenti dell’organizzazione cerebrale dovuti a intense e prolungate esperienze sensoriali. Molti di questi studi confermano un modello di apprendimento che collima abbastanza con le nostre intuizioni: le parti del cervello dedicate alle singole abilità sensoriali (sentire il Do centrale del pianoforte, o percepire il relativo tasto sotto il polpastrello del pollice) si ingrandiscono quando queste abilità sono ripetutamente chiamate in causa. O, per dirla rozzamente: l’esercizio ingrossa la parte, e più grossa significa migliore.

Oppure no? Un recente studio, pubblicato su “Neuron” rimette in dubbio questa relazione tra aumento delle dimensioni e miglioramento delle abilità. Studiando la corteccia uditiva dei ratti, i ricercatori hanno trovato che l’espansione dovuta all’addestramento della regione cerebrale legata a una certa abilità è di breve durata, anche quando questa maggiore abilità dura nel tempo. Invece di funzionare come per i muscoli, in cui l’allenamento fa crescere le dimensioni e le maggiori dimensioni danno migliori prestazioni, l’apprendimento sembra comportare anche una massiccia attività di potatura.

Ridisegnare la mappa

La corteccia cerebrale uditiva è un tessuto largamente uniforme. Funzionalmente, però, somiglia di più a un mosaico di territori neurali distinti, ciascuno dei quali “sente” solo una gamma limitata di frequenze sonore. Immaginando di proiettare la corteccia uditiva sulla mappa degli Stati Uniti, è come se le note di bassa frequenza fossero elaborate preferenzialmente in California, quelle acute a New York, e le note intermedie nello spazio tra l’una e l’altra.

Una delle grandi scoperte delle neu­roscienze degli scorsi decenni è che i confini che suddividono la mappa uditiva (come molte altre mappe sensoriali) dopo l’addestramento risultano ridisegnati. In particolare, gli studi di Michael Merzenich hanno rivelato che se si addestrano delle scimmie a operare difficili discriminazioni sonore  –  diciamo tra due note di bassa frequenza assai vicine tra loro  –  le regioni dedicate alle basse frequenze della mappa corticale uditiva diventano più vaste. Una serie di altri studi ha preso l’avvio da questa idea di base, e si è visto che bloccando l’espansione corticale si blocca anche l’apprendimento, e che spesso una maggiore espansione è correlata a un apprendimento migliore. Espansione corticale e apprendimento di nuove abilità sembravano dunque profondamente intrecciati.

 

Eppure, alcuni aspetti di questa teoria hanno provocato un certo scetticismo. Per imparare qualcosa serve davvero un così vasto rimodellamento della corteccia cerebrale? E come facciamo a mantenere un gran numero di abilità diverse visto che lo spazio per memorizzarle è limitato? Non dovrebbe venire un momento in cui le cose nuove devono cancellare le vecchie e prenderne il posto?

 

Per affrontare questi problemi, Michael P. Kilgard, della University of Texas a Dallas, e colleghi, hanno sottoposto la teo­ria delle dimensioni a una nuova verifica nei ratti. Invece di modificare la mappa della corteccia uditiva mediante addestramento, hanno cercato di ristrutturarla per via diretta. Sono così riusciti a isolare la questione delle dimensioni della mappa nell’apprendimento: se si fa in modo che una mappa sensoriale diventi semplicemente più vasta, senza altri cambiamenti, che cosa si guadagna in termini di prestazioni?

 

Alterare direttamente la corteccia udi­tiva è difficile, ma i ricercatori hanno trovato uno stratagemma. Hanno stimolato elettricamente una regione cerebrale (il nucleo basale) coinvolta nella motivazione dell’apprendimento. Accoppiando la stimolazione all’ascolto ripetuto di note basse, sono riusciti a centrare la parte della mappa uditiva dedicata alle basse frequenze, incoraggiandone l’espansione. Quando poi i ratti sono stati messi alla prova, inizialmente è parso che l’idea del rimaneggiamento delle mappe avesse segnato un punto: i ratti la cui mappa delle basse frequenze era più ampia imparavano a discriminare tra toni bassi in tre giorni, mentre i ratti di controllo ci mettevano più di una settimana.

Tuttavia, seguendo i ratti nel tempo i ricercatori hanno visto che le aree espanse della corteccia cominciavano a restringersi, e poi tornavano alla normalità: nel giro di 35 giorni le aree espanse artificialmente erano tornate alle dimensioni originarie. La cosa importante, però, è che malgrado fossero tornati alla situazione corticale precedente i ratti mantenevano le loro acuite capacità percettive. Lo stesso fenomeno è stato osservato seguendo i cambiamenti nei ratti addestrati a riconoscere le note nel modo normale, con settimane di lavoro e senza trucchi artificiali. Le mappe si ingrandivano, la capacità di discriminare le note migliorava e perdurava, ma nel tempo le mappe tornavano all’organizzazione iniziale. Quali che siano le qualità che distinguono un virtuoso della musica da un individuo meno abile fra i ratti, probabilmente non stanno in una differenza negli aspetti più ovvi dell’organizzazione del cervello.

 

Sbagliando si impara

E allora, cos’è che cambia? Anche se le nuove abilità percettive non appaiono evidenti a uno sguardo d’insieme, una base neurologica devono pur averla. L’ipotesi di Kilgard è che l’apprendimento potrebbe risultare da aggiustamenti che avvengono a livello più microscopico, e riguardano un numero relativamente piccolo di neuroni e sinapsi.

In un certo senso, non è un’idea molto diversa da altre ipotesi correnti su apprendimento e funzione neurale. La trama del cervello è estremamente fine, e molte delle sue funzioni sono regolate a una scala fisicamente piccolissima, per cui non sarebbe sorprendente che una serie di cambiamenti fisici, minimi e difficili da studiare, possa sommarsi fino a dar luogo a cambiamenti delle capacità o del comportamento.

 

Rimane però una questione più grossa. Se un’abilità appena imparata lascia nel cervello solo una minuscola impronta, perché il processo di apprendimento non può svolgersi in modo meno pesante? Perché prendersi la briga di allargare e restringere ampie regioni funzionali della corteccia solo per arrivare a quelle poche differenze neurali di cui è fatta una certa differenza percettiva?

 

Forse è perché il nostro cervello non è più bravo di noi. Se noi non sappiamo come trasformarci da novellini a esperti in pochi passi ottimali e ben scelti, nemmeno il nostro cervello sa farlo. Kilgard avanza un’idea stimolante, ipotizzando che l’espansione della mappa corticale sia un po’ come un comitato. Genera una gamma di possibili soluzioni al problema che sta di fronte al cervello, ma che questo non sa ancora come risolvere. (Come faccio a distinguere tra questi due toni sonori? Come faccio a lanciare la palla nel canestro? Come risolvo questo problema di calcolo integrale?). Una volta trovata una buona soluzione, il comitato si scioglie. I cambiamenti validi, che si traducono in abilità reali, si conservano, mentre quelli poco significativi sono eliminati, e la mappa torna a restringersi.

 

C’è una sorta di conferma della nostra fiducia in noi stessi, nell’idea che l’apprendimento, “visto” dall’esterno, possa svolgersi proprio come lo viviamo dentro di noi. Una volta arrivati in vetta, è facile guardarsi indietro e dire qual è la via che porta direttamente a diventare esperti. Ma né noi né il nostro cervello possiamo prendere questa strada senza pagare un pedaggio. Forse abbiamo solo bisogno di fare un sacco di tentativi  –  che poi in gran parte saranno ridondanti, indiretti e semplicemente sbagliati  –  per esser certi di imbatterci nelle poche mosse che veramente valgono qualcosa.

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