Prostatite: tre domande per scoprirla immediatamente. Ancora è un tabù

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Dal congresso europeo degli urologi un nuovo appello per la prevenzione di una malattia che colpisce ogni anno 6 milioni di italiani e continua a essere sottovalutata soprattutto dai pazienti. I consigli degli esperti per combatterla anche a tavola e sul lavoro

Prostatite, tre domande per scoprirla subito. Ma per gli uomini è ancora un tabùMADRID – Quick Prostate Test (QPT), tre semplici e veloci domande che indagano i sintomi urinari, per scoprire in anticipo e intervenire adeguatamente contro l’ipertrofia prostatica benigna, problema che colpisce circa 6,6 milioni di maschi italiani.prostate-cancer Per la precisione metà dei cinquantenni, il 65% dei sessantenni e l’80% dei settantenni. Ecco le domande: Si è alzato almeno due volte a notte nell’ultimo mese per urinare? Durante il giorno ha difficoltà a trattenerla? Ha la sensazione di non riuscire a svuotare la vescica? Se si risponde affermativamente a uno di questi interrogativi, è bene cercare di approfondire con esami più specifici, dall’esame delle urine al Psa (test del sangue) fino all’esplorazione digito rettale. Se ne parla con insistenza a Madrid al Congresso europeo di urologia che registra un record di presenze (14 mila iscritti) e oltre mille studi e poster presentati ora anche nella forma online.

Per l’ingrossamento della prostata si potrebbero dimezzare le percentuali di malattia solo seguendo il consiglio della visita e del colloquio con il medico di famiglia e con l’urologo. Ma i maschi, segnalano gli urologi in coro, “prima di sottoporsi a una qualsiasi visita in caso di problemi urinari, arrivano all’assurdo di circoscrivere e subordinare la loro vita sociale alla vicinanza di un bagno. Meno della metà degli uomini si apre con il proprio medico di famiglia”. Dimenticando che il ritardo terapeutico ne causa l’aggravamento (riduzione del flusso urinario, ritenzione acuta e disturbi sessuali). Un dato generale europeo emerso in occasione del congresso.

“Gran parte dei pazienti – spiega Vincenzo Mirone, professore Ordinario dell’università Federico II di Napoli e segretario generale della Società italiana di urologia (SIU) – considera i disturbi urinari come fisiologici, normali, e sono rassegnati a sopportarli. Si stima, infatti, che meno del 50% degli uomini che presentano difficoltà urinarie si rivolge a un medico. Questa riluttanza del paziente, legata a imbarazzo, scarsa informazione o paura di un eventuale soluzione terapeutica chirurgica, suggerisce la necessità che sia il medico a svolgere un ruolo proattivo”.

UOMINI CHE SI ODIANO – “Potremmo chiamare i nostri maschi ‘uomini che odiano gli uomini’ – continua Mirone – dal momento che avere vistose disfunzioni erettili è un segnale che sottovalutare è davvero da folli. Per questo far emergere in maniera precoce il problema è fondamentale: non solo aiuterebbe a ridurre le complicanze e il numero di interventi, ma migliorerebbe, anzi ‘rivoluzionerebbe’ la vita del paziente, facendolo tornare ventenne. Tutti, ma proprio tutti, i maschi di 50 anni e oltre dovrebbero essere intervistati dal medico sull’Ipertrofia prostatica benigna e informati su ciò che rischiano”. Poco meno del 66% dei pazienti affetti da IPB presenta comorbidità, di cui le più ricorrenti sono l’ipertensione (41,7%), il diabete mellito (12,9%), le coronaropatie (15,7%), le comorbidità multiple (29,4%).

LA PREVENZIONE – Intorno ai 45-50 anni sono consigliati visita e controlli. Importanti sono poi l’alimentazione e l’attività fisica. In particolare sui cibi: Evitare l’assunzione di grassi animali e l’eccessivo consumo di alcol; prediligere una dieta mediterranea ricca di fibre integrali, molta frutta e verdura; assumere 1-2 litri di acqua al giorno; ridurre l’apporto di liquidi, soprattutto caffé e tè, prima di dormire. E poi fare movimento, praticare attività fisica con regolarità, meglio se all’aria aperta, evitare di restare a lungo in posizione seduta e, nel caso che il lavoro comporti tale staticità, effettuare frequenti pause.

LE TERAPIE – Passando alle cure, tre sono le principali classi di farmaci in uso: Gli alfa bloccanti: rilassano la muscolatura del collo vescicale e della prostata migliorando i sintomi nell’arco di 2-3 settimane, senza tuttavia agire sulla riduzione del volume della prostata e il rischio di complicanze. Gli inibitori delle 5 alfa-reduttasi: abbassano i livelli di diidrostestosterone (l’ormone maschile che causa l’accrescimento delle prostata) e riducono il volume della prostata con un conseguente e progressivo miglioramento dei sintomi e la riduzione del rischio di complicanze. I fitoterapici (trigliceridi, fitosteroli, derivati del sitosterolo, flavonoidi) con proprietà antiandrogeniche, antiinfiammatoria e spasmolitiche. In presenza di progressione dei sintomi o di inefficacia farmacologica si ricorre alla terapia chirurgica le cui modalità di intervento sono: endoscopiche (TURP, TUIP, HOLEP) o chirurgia classica (adenomectomia prostatica a cielo aperto).

TUMORE E ROBOT – A Madrid si parla anche di tumori della prostata, una delle forme più comuni e aggressivi del cancro maschile. Francesco Montorsi, direttore dell’Unità operativa di urologia del San Raffaele di Milano, durante una sessione del congresso, ha sottolineato il ritardo dell’Italia nell’intervento con il robot per i tumori alla prostata. “Dove la superiorità del robot è chiara è nel tumore della prostata – ha spiegato Montorsi – . Negli Usa ormai il 90% di questi interventi si fa con il robot, mentre da noi le percentuali sono molto più basse. Dai dati che abbiamo presentato qui al congresso si vede che con il robot si ha una più alta percentuale di guarigione completa e un più veloce recupero sia della continenza sia delle capacità di erezione. Nel caso dei tumori più difficili inoltre il recupero si allunga, ma con la chirurgia robotica si ha la quasi totale certezza di recuperare le funzionalità”.

In Italia ci sono al momento circa 35 macchine, distribuite però in maggioranza al nord. Lo sviluppo, ha spiegato l’esperto, è frenato dai costi molto alti, ma il problema potrebbe essere superato con una diversa organizzazione. “Sarebbe necessario un modello con pochi centri specializzati che fanno un gran numero di interventi – afferma Montorsi -. In Gran Bretagna ad esempio per il tumore della vescica sono stati autorizzati solo cinque ospedali. Purtroppo questo modello si scontra con il fatto che è difficile ‘convincere’ un ospedale a non fare questi interventi, e anche i pazienti preferiscono ancora l’intervento vicino a casa”.

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