Un articolo pubblicato su “Lancet” fa il punto su conoscenze ed esperienze sulla dislessia: il disturbo è essenzialmente fonologico e sono noti sei geni implicati nella sua insorgenza. Tuttavia sono necessari nuovi studi per comprendere l’influenza dei fattori ambientali e l’interazione con altre patologie come l’ADHD.

Una più profonda conoscenza delle cause del disturbo, un miglioramento delle condizioni di vita di chi ne è affetto: sono questi i due obiettivi a cui puntare nel campo della ricerca e del trattamento della dislessia, secondo un articolo apparso sulla rivista “Lancet”.

Tra i disturbi specifici di apprendimento, la dislessia ha come principale manifestazione la difficoltà a leggere velocemente e a voce alta e colpisce circa il sette per cento della popolazione, con una netta prevalenza nel sesso maschile. Uno dei problemi che riguardano la diagnosi è che i sintomi si manifestano in soggetti in età scolare, il che impedisce di ottenere i risultati migliori.

“I professionisti impegnati in questo campo non dovrebbero attendere una diagnosi formale di dislessia prima di implementare un trattamento per la lettura, poiché il rimedio è meno efficace dell’intervento precoce”, hanno spiegato Robin Peterson e Bruce Pennington dell’Università di Denver.

Con l’accumulo di esperienze e conoscenze, negli ultimi anni è cambiato il modello che neuroscienziati e psicologi hanno fornito di questo disturbo. Ultimamente infatti si è propensi a ritenere che il deficit sia innanzitutto fonologico e riguardi il modo in cui i suoni sono rappresentati in segni scritti.

“Come in tutti i casi di disturbi comportamentali, l’origine della dislessia è multifattoriale ed è associata a fattori di rischio ambientali e genetici”, spiegano gli autori.

Recentemente infatti sono stati identificati sei geni che contribuiscono all’insorgenza del disturbo, ma si sa assai poco sul modo in cui possano agire e sulle possibili interazioni e sinergie con fattori ambientali sfavorevoli, come le limitate abilità linguistiche dei genitori. Una strada di particolare interesse riguarda per esempio le possibili interazioni con altri disturbi e in particolare con il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD).

“È necessario capirne di più sulla natura del deficit fonologico e su come questo problema interagisce con altri fattori linguistici e non linguistici, sullo sviluppo di questi disturbi neurologici e sulle possibilità di prevedere la risposta al trattamento”, ha sottolineato Pennington. “Gli studi di imaging cerebrale hanno mostrato che gli interventi che si rivelano efficaci sembrano promuovere la normalizzazione dell’attività nell’emisfero sinistro, e in particolare nelle aree deputate al linguaggio e alla lettura, in cui l’attività sembra diminuire”.

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