Quale influenza hanno avuto le infezioni sulle origini dell’uomo

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Centomila anni fa la popolazione umana, che contava poche migliaia di individui, ha rischiato l’estinzione. I fattori che hanno permesso di superare questa fase critica non sono ancora chiari e le ipotesi sono diverse. Ora uno studio suggerisce che i nostri antenati potrebbero aver superato quel collo di bottiglia grazie a una mutazione genetica che ha conferito una migliore protezione contro patogeni che causano gravissime infezioni nei neonati della nostra specie.

Proprio ai suoi albori, la nostra specie è stata a un passo dall’estinzione: si stima infatti che fra 200.000 e 100.000 anni fa la popolazione dei nostri antenati sia crollata fino al limite critico di 10.000, forse addirittura 5000 membri. Poco dopo, però, si è verificato un boom demografico che ha indotto gruppi di uomini a diffondersi sempre di più nel continente africano prima, e a colonizzare il resto del mondo poi.

Che cosa aveva provocato quel “collo di bottiglia” nell’espansione della nostra specie e che cosa ha permesso di superarlo? Le ipotesi proposte sono molte: dagli sviluppi culturali, come lo sviluppo del linguaggio, ai cambiamenti climatici, fino ad altri eventi naturali catastrofici, come un’imponente eruzione vulcanica.


Ora una ricerca condotta da un gruppo internazionale di biologi e paleoantropologi – fra i quali David Caramelli, Martina Lari, Ermanno Rizzi, Carlotta Balsamo, Giorgio Corti, Gianluca De Bellis e Laura Longo, delle università di Firenze, Milano e Siena – propone un nuovo fattore significativo: le malattie infettive.
In un articolo pubblicato sui “Proceedings of National Academy of Sciences” spiegano infatti che proprio 100.000 anni fa nella nostra specie si è diffusa una mutazione che ha portato all’inattivazione di due geni legati al sistema immunitario, conferendo una migliore protezione da alcuni ceppi batterici patogeni, come Escherichia coli K1 e streptococchi di gruppo B, che costituiscono la principale causa di morte nel periodo prenatale e nei neonati.

“In una piccola popolazione, una singola mutazione può avere un grande effetto, un allele raro può arrivare ad avere una frequenza elevata”, ha detto Ajit Varki, dell’Università della California a San Diego, che ha coordinato lo studio.

“Abbiamo scoperto due geni che sono non funzionali negli esseri umani, mentre lo sono nei primati più prossimi a noi, e che avrebbero potuto essere l’obiettivo di batteri patogeni particolarmente letali per neonati e bambini. La morte dei più piccoli può avere un impatto significativo sulla capacità riproduttiva. La sopravvivenza della specie può quindi dipendere dallo sviluppo di una resistenza al patogeno o dall’eliminazione delle proteine che il patogeno sfrutta per prendere il sopravvento.”

Ed è proprio questa seconda possibilità che secondo i ricercatori si è verificata nei nostri antenati. In particolare, gli autori dello studio indicano l’inattivazione di due recettori per l’acido sialico che modulano le risposte immunitarie e fanno parte di una grande famiglia di geni che sarebbe stata molto attiva nell’evoluzione umana. In particolare, hanno scoperto che il gene che codifica per la proteina Siglec-13 non fa più parte del nostro genoma, anche se rimane integro e funzionale negli scimpanzè, i nostri cugini evolutivi più vicini. L’altro gene siglec – che codifica per la proteina Siglec-17 – è ancora espresso negli esseri umani, ma sembra leggermente modificato e produce una proteina più corta, priva di utilità per gli agenti patogeni invasivi.

In un esperimento insolito, gli autori dello studio hanno “resuscitato” questi “fossili molecolari”, scoprendo che quelle proteine sono riconosciute dagli attuali ceppi patogeni di Escherichia coli e dagli streptococchi di gruppo B.

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