Ictus: nuove terapie ‘a misura’ permettono un recupero migliore

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Da un nuovo studio dei ricercatori del Campus Bio-Medico di Roma arriva la possibilità di sviluppare tecniche di stimolazione cerebrale transcranica più efficaci per il recupero nei pazienti vittime di ictus cerebrale

Nuove terapie post-ictus si basano sulla stimolazione transcranica.

Essere vittime di un ictus non è mai una bella cosa. Tuttavia, nel caso, poter contare su interventi tempestivi e metodologie di recupero più efficaci è un qualcosa che può sollevare un po’ l’umore e accendere nuove speranze di ripresa.ictus_ischemia
Ad accendere queste speranze è uno studio appena pubblicato su Nature Reviews Neurology e condotto dai neurologi del Campus Bio-Medico di Roma. Il lavoro dei ricercatori italiani pone proprio le basi per lo sviluppo di tecniche di stimolazione cerebrale transcranica più efficaci per il recupero nei pazienti vittime di ictus cerebrale.

Come spesso ribadito, quando si parla di malattie e cure, ogni persona è un caso a sé. E anche in caso di ictus il ricorso a cure standard, o l’utilizzo della “taglia unica”, nella terapia di recupero post-ictus porta spesso a scarsi risultati. Per evitare tutto ciò, dev’essere infatti attuata una differenziazione degli interventi in base all’entità del danno cerebrale.
«Le indicazioni di questo studio – sottolinea il dr. Giovanni Di Pino, ricercatore in Neurologia e Bioingegneria del Campus Bio-Medico e prima firma dello studio – aprono la strada a terapie di recupero dall’ictus sempre più personalizzate e, per questo, più efficaci anche a distanza di anni dall’evento».

«Per fare un parallelismo – aggiunge il prof. Vincenzo Di Lazzaro, Direttore della Cattedra di Neurologia del Campus Bio-Medico e senior author della ricerca – è come se, in fase di attraversamento di una strada, vedessimo arrivare un’automobile in corsa. La scelta di affrettare il passo verso l’altra parte o di tornare indietro dipende da quanta distanza abbiamo già percorso dal marciapiede. In tal modo, un utilizzo più mirato degli impulsi elettrici e dei campi magnetici consentirà di interfacciarsi con il cervello “riavviandolo” e “riprogrammandolo”, un po’ come avviene con i computer».

Il cervello umano funziona trasformando impulsi elettrici in segnali chimici – con il rilascio di neurotrasmettitori – e viceversa. Attraverso questo all’apparenza semplice meccanismo, miliardi di cellule nervose comunicano in ogni istante e ci permettono di pensare, parlare e muoverci. Quando però si verifica un ictus cerebrale, questi meccanismi possono essere danneggiati in maniera più o meno grave. I conseguenti danni possono intaccare le normali funzioni cerebrali.

Negli ultimi anni, le neuroscienze hanno aperto le porte a un nuovo approccio terapeutico per promuovere il recupero dopo un ictus che potrebbe affiancarsi alla riabilitazione. E’ una strategia “elettromagnetica” in grado di modulare la trasmissione dei segnali elettrici cerebrali e potenziare la comunicazione tra diverse aree cerebrali, e tra queste e i muscoli. Tuttavia, tale approccio basato sull’uso di campi elettrici e magnetici, benché innovativo, ha finora permesso di ottenere risultati ancora molto limitati.

Dall’analisi effettuata dai ricercatori del Campus Bio-Medico emerge che le due principali scuole di pensiero sul trattamento con tecniche di neuromodulazione cerebrale non-invasiva nell’ictus non sono da contrapporre, ma vanno bensì adattate a seconda dell’entità del danno subito dal cervello.
Il primo modello è quello della cosiddetta “competizione tra emisferi”. Secondo questo approccio, in un cervello colpito da ictus andrebbe inibita la parte sana, al fine di impedire che la sua iperattività rallenti il recupero dell’emisfero leso. Per contro, l’altro approccio vede nella stimolazione dell’emisfero non colpito da ictus un elemento di forza per favorire il migliore recupero delle funzioni motorie del paziente, sfruttandone l’attività “sostitutiva”.

I ricercatori del Campus Bio-Medico indicano che non c’è una strada unica genericamente valida per tutti i pazienti. La scelta del trattamento indicato dipende piuttosto da quanto grande è il danno cerebrale. Difatti, secondo gli studiosi, se è di modesta entità, l’obiettivo è tornare ad avere un cervello che funzioni come faceva prima dell’ictus. Di conseguenza, l’approccio più adeguato è quello di inibire l’iperattività dell’emisfero sano. Se, viceversa, il danno cerebrale è molto vasto, la strategia di recupero vincente è quella che potenzia l’emisfero cerebrale non colpito dall’ictus in sostituzione di quello danneggiato.

A questa ricerca si lega un secondo studio, realizzato sempre dai neurologi del Campus Bio-Medico e pubblicato sulla rivista Brain Stimulation. I ricercatori hanno scoperto che alcune caratteristiche genetiche influenzano il modo in cui il cervello di un soggetto colpito da ictus si riorganizza dopo l’evento. Lo studio si è focalizzato sugli effetti delle varianti di un singolo gene, che codifica una proteina della famiglia delle neurotrofine, chiamata Brain Derived Neurotrophic Factor (BDNF). Questa proteina favorisce la sopravvivenza dei neuroni e influenza i fenomeni di plasticità cerebrale.
«Abbiamo scoperto – chiarisce Di Lazzaro – che per poter definire i programmi terapeutici e riabilitativi post-ictus anche le caratteristiche genetiche dell’individuo rappresentano un elemento rilevante da prendere in considerazione. Di fatto, questo gene influenza il modo in cui i due emisferi cerebrali reagiscono a un ictus: nei soggetti con la forma più diffusa del gene l’emisfero cerebrale non colpito prende il sopravvento, diventando ipereccitabile agli stimoli esterni. Nei soggetti con una variante del gene, detta polimorfismo, lo sbilanciamento tra l’attività dei due emisferi che si verifica dopo l’ictus è nove volte inferiore. L’ipereccitabilità dell’emisfero non colpito da ictus ha un ruolo significativo nei processi di recupero, in quanto può favorirlo, soprattutto quando i danni dell’ictus sono molto estesi, ma può anche interferire con esso nel caso di lesioni di minori dimensioni».

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