Tumori prostatici: nanoparticelle d’oro radioattive che distruggono le cellule cancerose

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Una nuova strategia che, stando ai test di laboratorio, pare promettente anche quando la malattia è aggressiva

MILANO – Limitare le dosi di radiazioni, e quindi gli effetti collaterali sui tessuti sani, pur raggiungendo l’obiettivo: distruggere o ridurre le dimensioni del tumore. E’ questo l’obiettivo a cui puntano molte ricerche e gli studiosi dell’Università americana del Missouri hanno messo a punto, per ora solo su cavie di laboratorio, una nuova strategia per irradiare il carcinoma della prostata: utilizzare nanoparticelle d’oro che vengono trasportate «a destinazione» tramite un composto che si trova nelle foglie di tè. «Durante le nostre ricerche – spiega Kattesh Katti, autore del lavoro – abbiamo capito che un particolare composto contenuto nel tè era attratto dalle cellule tumorali presenti nella prostata, così lo abbiamo sfruttato per portare direttamente solo sulle cellule malate (risparmiando quelle sane) delle piccole particelle radioattive che si sono rivelate molto efficienti nel distruggere la neoplasia».
COME FUNZIONA – Il principio di funzionamento è molto simile a quello della brachiterapia, un trattamento oggi già ampiamente usato nei malati con un carcinoma prostatico, che prevede l’iniezione di centinaia di «semi» radioattivi nella ghiandola prostatica. E, secondo i ricercatori, la nuova strategia sarebbe efficace anche nei casi più difficili da curare, i carcinomi prostatici particolarmente aggressivi.


«Il nuovo sistema che abbiamo elaborato ha dei vantaggi – dice Katti -: primo, le nanoparticelle d’oro create sono della misura e della forma giusta per “infilarsi e restare ancorate” dentro il tumore (senza intaccare le zone sane) rilasciando le radiazioni con la massima efficacia e potenza, superiore a quella attuale. Secondo, hanno proprietà radio-chimiche molto favorevoli, come una vita molto breve (meno di tre giorni). Ciò significa che entro circa tre settimane la radioattività si esaurisce». i risultati finora ottenuti sulle cavie paiono promettenti anche secondo Riccardo Valdagni, direttore del Programma Prostata all’Istituto Tumori di Milano: «Prima che la sperimentazione avvenga sull’uomo, sono necessarie ulteriori dimostrazioni di sicurezza ed efficacia di questo nuovo concetto di terapia. Se confermate, le dimensioni delle particelle radioattive, il loro legame con i recettori della laminina, particolarmente concentrati nel tumore prostatico e le proprietà biochimiche delle sostanze, permetterebbero di ottenere massime concentrazioni dell’effetto terapeutico dell’oro radioattivo nella prostata, massimo risparmio dei tessuti sani circostanti e quindi minimi effetti collaterali». E lo stesso principio potrà essere utilizzato nella diagnostica per immagini per svelare la presenza di un’eventuale malattia a distanza con delle metastasi.
(Corriere.it)

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