I sulfamidici potrebbero tornare a nuova vita, grazie ad una molecola più sicura e con meno effetti collaterali

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I principali effetti collaterali di questa vecchia famiglia di farmaci sono dovuti all’inibizione di un enzima essenziale per la produzione e il metabolismo di alcuni  neurotrasmettitori, e in particolare della dopamina. La scoperta permetterà di mettere a punto una nuova e più sicura generazione di molecole.
Le basi molecolari degli effetti collaterali neurologici legati all’uso dei sulfamidici sono state individuate da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Losanna, che le descrive in un articolo a prima firma Hirohito Haruki pubblicato sui “Science”. La scoperta permetterà di progettare nuove molecole di questo tipo ridando slancio a questa vecchia ma importante classe di farmaci.

Fin dalla loro scoperta nel 1932, i sulfamidici sono stati utilizzati per combattere una vasta gamma di infezioni batteriche, dall’acne alla clamidia alla polmonite. Pur essendo ben noti i meccanismi attraverso cui queste molecole esplicano la loro azione terapeutica, erano finora rimasti oscuri quelli che danno origine ai loro effetti collaterali, che possono includere problemi neurologici come nausea, mal di testa, vertigini, allucinazioni e addirittura psicosi. Questo ha di fatto impedito la progettazione di nuovi sulfamidici che non rischiassero di interferire con il sistema nervoso.

I ricercatori sono partiti dalla constatazione che i sintomi più gravi che si possono manifestare in seguito alla somministrazione di sulfamidici ricalcano quelli presenti nei pazienti affetti da iperfenilalaninemia, la cui patologia è dovuta a difetti nella produzione o nel metabolismo di una importante molecola, la tetraidrobiopterina (BH4), che ha un ruolo fondamentale per la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina e, ancor più, la dopamina.

Struttura dei siti di legame di sue sulfamidici. (Cortesia H. Haruki et al./Science/AAAS)
I ricercatori sono riusciti a dimostrare che che i sulfamidici interferiscono con l’azione di un enzima, la sepiapterina reduttasi, che partecipa attivamente alla sintesi cellulare della tetraidrobiopterina, determinando anche la struttura cristallografica. Ciò ha permesso, insieme a un nuovo sistema di screening dei farmaci ad alto rendimento, di determinare le differenti capacità di inibizione dei vari sufamidici. Fra i più potenti inibitori dell’enzima vi è in particolare il sulfametossazolo, uno dei più utilizzati e particolarmente utile, in associazione con il trimetoprim (cotrimossazolo) per combattere la polmonite da Pneumocystis pneumonia (PCP), un’infezione opportunistica fungina che colpisce frequentemente i soggetti immunocompromessi.

“Ora che sappiamo quello che succede possiamo cominciare a pensare a strategie per affrontare il problema”, ha detto Kai Johnsson, che ha diretto la ricerca. “Storicamente, non credo che ci sia una classe di farmaci più importante di sulfamidici, e ora siamo in grado di capirli meglio. Lo studio ci ricorda inoltre che possono essere fatte sorprendenti scoperte anche per farmaci vecchi come questi.”

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