Carcinoma ovarico: sempre piu’ casi di successo e strategie per migliorare qualita’ della vita

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Da male incurabile a male che si può combattere anche con successo: è questo il risultato di una lunga guerra fatta di luci ed ombre portata avanti da anni per offrire una vita migliore alle oltre 4.000 donne in Italia che ogni anno sono colpite da tumore ovarico, secondo tumore più diffuso tra quelli ginecologici.

b) cellule carcinoma ovarico, g) cellule epiteliali sane
b) cellule carcinoma ovarico, g) cellule epiteliali sane

A causa del carattere inizialmente asintomatico della malattia, l’80% delle pazienti viene diagnosticata nella fase già avanzata e la mortalità è molto elevata, ma grazie al miglioramento delle terapie si è riusciti a portare la sopravvivenza a 5 anni al 30-40%, mentre venti anni fa non superava il 20% dei casi. E per un numero sempre maggiore di pazienti oggi la sopravvivenza può arrivare anche a 8-10 anni.

Oggi è, quindi, possibile spostare in avanti le frontiere della qualità di vita per le donne colpite da questo tipo di tumore che spesso, soprattutto in giovane età, hanno grandi difficoltà nel seguire la famiglia, allevare i figli e condurre una vita sociale normale a causa per esempio della caduta dei capelli dovuta a terapie radianti. In loro aiuto sono disponibili oggi terapie sempre più personalizzate, tecniche chirurgiche meno invasive, farmaci meno tossici.


Promuovere, quindi, la diffusione di nuovi standard terapeutici, come la combinazione doxorubicina liposomiale peghilata e carboplatino, che a parità di efficacia con le attuali terapie sono più rispettosi della qualità di vita delle pazienti, riducendo l’impatto di effetti collaterali quali la perdita di capelli o l’alterazione della sensibilità alle dita di mani e piedi, è l’indicazione che arriva dalla 15° riunione, inaugurata oggi a Roma, del Gruppo MITO (Multicenter Italian Trials in Ovarian cancer), un gruppo di ricerca italiano attivo da oltre 10 anni e impegnato a sviluppare collaborazioni di ricerca in ambito di ginecologia oncologica.

La chemioterapia di prima linea insieme all’intervento chirurgico riesce a ridurre la malattia, a volte fino alla scomparsa, nel 50-80% dei casi. Purtroppo, il 60% di queste pazienti recidiva, e ha bisogno di altri trattamenti chemioterapici di seconda linea.

“Il nostro primo obiettivo è ottenere nel maggior numero di casi la cronicizzazione della malattia, attraverso trattamenti chemioterapici multipli, intercalati quando necessario da interventi chirurgici – ha affermato Sandro Pignata, Direttore U.O.C. Oncologia Medica, Istituto Nazionale Tumori Fondazione G. Pascale, Napoli, Presidente Mito Group – Ma l’altro obiettivo che ci vede impegnati è quello di migliorare la qualità di vita delle pazienti, fortemente influenzata, oltre che dalla malattia in sé, dagli effetti tossici dei farmaci”.

Permettere alla donna di condurre una vita il più possibile normale, soprattutto in caso di ricaduta, situazione in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, la guarigione dal tumore non può essere raggiunta, è il traguardo degli oncologi.

“Le attuali terapie possono comportare effetti collaterali che hanno serie conseguenze sulla vita quotidiana, familiare e professionale delle pazienti” – ha aggiunto Giovanni Scambia Direttore del Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e della Vita Nascente del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma – aspetti quali la caduta dei capelli o la neurotossicità, ovvero il danno alle fibre nervose periferiche, che si può manifestare con alterazioni della sensibilità delle dita, delle mani, dei piedi, ma anche con alterazioni di tipo motorio, sono problemi drammatici perché condizionano l’immagine che la donna ha di sé e la sua capacità di interagire con gli altri”.

Due studi recenti, MIT0-2 e CALYPSO, aprono però la strada ad alternative nella terapia del carcinoma ovarico che vanno in direzione di una migliore qualità di vita assicurando, a parità di efficacia con la terapia standard – carboplatino e taxolo – una significativa riduzione degli effetti collaterali. I due studi si basano sull’impiego di doxorubicina liposomiale peghilata come alternativa a taxolo nella combinazione con carboplatino. Questa combinazione è stata valutata come terapia di prima linea nello studio MITO-2, promosso dal Gruppo MITO, e nel trattamento delle recidive nello studio CALYPSO, coordinato dal gruppo francese GINECO.

Lo studio MITO ha coinvolto oltre 800 pazienti e si è concluso un anno e mezzo fa; i risultati definitivi non sono ancora disponibili ma i dati finora emersi evidenziano i vantaggi di questa nuova terapia in termini di tossicità, con un impatto molto più ridotto di problemi quali la perdita di capelli e la neurotossicità. Inoltre, la proporzione di pazienti che hanno una risposta al trattamento, con riduzione o scomparsa della malattia, è uguale nei due schemi di trattamento.

Lo studio CALYPSO invece ha già dato i suoi risultati definitivi, dimostrando che la combinazione di carboplatino e doxorubicina liposomiale peghilata è più efficace in termini di sopravvivenza libera da progressione e la tossicità sensibilmente minore rispetto allo schema classico con carboplatino e taxolo.

Il trattamento con doxorubicina liposomiale peghilata e carboplatino ha addirittura determinato un miglioramento di circa due mesi della sopravvivenza libera da progressione, che era l’obiettivo primario dello studio. Inoltre la nuova combinazione si è dimostrata anche molto meglio tollerata rispetto alla terapia standard: nelle donne trattate con doxorubicina liposomiale peghilata, infatti, sono risultate decisamente meno frequenti l’alopecia (7 contro 84%), la neurotossicità (5 contro 28%) e le reazioni allergiche al carboplatino (5 contro 19%).

“Avere a disposizione un trattamento con un’efficacia pari o superiore alla terapia standard, ma che non fa perdere i capelli, è un passo in avanti enorme – ha sottolineato Giovanni Scambia – l’alopecia, spesso poco considerata dal medico, può portare anche a un’interruzione del trattamento in pazienti che, dopo una ricaduta, devono rifare la terapia, e per la seconda volta vedono cambiare il proprio aspetto”.

“Sulla base delle evidenze dei due studi – ha quindi affermato Sandro Pignata – possiamo ritenere che la combinazione doxorubicina liposomiale peghilata-carboplatino rappresenta una valida alternativa e in un futuro molto prossimo potrebbe addirittura diventare il nuovo standard terapeutico per il trattamento di queste pazienti”.

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