Ecco come il diabete riscrive la nostra storia genetica, complice l’alimentazione

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“Siamo quello che Mangiamo”. Un vecchio detto che ora trova la sua verità scientifica in uno studio pubblicato sul numero di settembre di Cell Metabolism, nel quale Juleen Zierath e colleghi del Karolinska Institutet, Svezia, spiegano di aver scoperto nel Dna, isolato dal tessuto muscolare di persone malate di diabete, cambiamenti dinamici, o anche i “marchi” biochimici, associati alla malattia. Segni epigenetici trovati precisamente su un gene che controlla la quantità di carburante, sotto forma di glucosio o lipidi, bruciati dalle cellule. Questi segni, che indicano che sono avvenute trasformazioni, sono presenti anche sul muscolo scheletrico di gente con prediabete, è cioè ancora allo stadio iniziale della malattia.


Questo a significare che queste modifiche sul Dna avvengono già in una fase molto precoce, quando ancora il diabete non è conclamato e si tratta di cambiamenti che riprogrammano rapidamente l’attività del gene, senza alterarne però la sequenza genomica. Secondo gli scienziati, fattori ambientali, come quello che mangiano o quanto siamo attivi, insomma il nostro stile di vita può influenzare i nostri geni e la loro funzione in meglio o in peggio.



In proposito, i ricercatori dimostrano nella loro ricerca che l’ipermetilazione (reazione chimica che porta alla trasformazione di un composto organico) di un gene chiamato PGC-1 avviene anche nelle cellule delle fibre muscolari, quando queste sono esposte a fattori infiammatori o agli acidi grassi liberi. «Questi cambiamenti – spiega Zierath – avvengono quando il muscolo è esposto a fattori chimici che imitano la condizione diabetica ed hanno luogo in un organismo maturo. È un processo molto dinamico, più di quanto pensassimo, e le alterazioni epigenetiche, che avvengono sui nostri geni, possono alterare la nostra fisiologia in modo critico».

Altri studi generazionali umani hanno dimostrato che i fattori dietetici possono influenzare, nel diabete, il controllo epigenetico del gene e che, ad esempio, il modo di mangiare dei nonni è strettamente associato ad un maggiore rischio per i nipoti di mortalità per diabete. Se questi cambiamenti abbiano un effetto immediato anche su altri tessuti del corpo non è chiaro, ammettono gli scienziati, né si sa, se questi sono reversibili o possano essere evitati.

Zierath e colleghi riferiscono nello studio di essere riusciti a bloccare, su modello animale, il processo di ipermetilazione del gene PGC-1 e, quindi, i suoi cambiamenti, tramite il silenziamento di un gene che codifica per uno o più enzimi che trasferiscono gruppi metilici extra sul Dna. In sostanza, questo studio dimostra, spiega ancora Zierath, che noi non siamo vittime dei nostri geni e, quindi, «è molto eccitante pensare che noi stessi possiamo abbassare il rischio di ammalarci se è vero che l’attività fisica o lo stile di vita possono influenzare positivamente il nostro epigenoma e migliorare il metabolismo». Per il futuro, la speranza è di poter realizzare farmaci in grado di bloccare il processo di metilazione su tessuti specifici, ma ci vorranno ulteriori ricerche per verificare se diete o l’esercizio fisico possono, effettivamente, alterare in modo benefico la metilazione del nostro Dna.

La Stampa

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